Entrai nella stanza e strappai la confezione di carta,
che conteneva la prima risma di fogli bianchi, senza nemmeno togliermi la
giacca. Ne estrassi un piccolo blocco e lo appoggiai sulla scrivania. Presi un
foglio a caso e lo infilai delicatamente nel rullo della macchina da scrivere,
ruotandone lentamente la rotella per mantenerlo nella posizione corretta.
Ero pronto a inziare ma non sapevo da dove. Una
miriade di parole scollegate cominciò a frullarmi in testa, si trattava solo di
metterle insieme e dar loro un senso logico.
Lanciai lo sguardo al di fuori della finestra in
cerca di un soffio di razionalità; vidi la pioggia sporcare i vetri e le nuvole
grigie correre velocemente nel cielo, sospinte dal vento.
Sentivo un ingorgo di frasi e considerazioni
percorrere il mio stomaco, roteare nelle viscere, scendere e risalire senza mai
prendere la giusta direzione.
Tornai a guardare il foglio bianco davanti a me, che sembrò
schernirmi.
Chiusi gli occhi e provai ad ascoltare i rumori
soffocati della casa; attendevo una parola pronunciata per caso, che aprisse il
varco nel fiume di pensieri dentro di me e indicasse la strada.
Aspettai per diversi minuti, aspettai pazientemente
qualcosa di indefinito.
Cominciai a battere dei tasti a caso solo per sentire
il rumore dell’inchiostro che imprimeva la sua impronta indelebile, per vedere
la forma di ciò che avevo in testa. Riempii una pagina intera di lettere e
numeri senza senso; quando arrivai sul fondo, estrassi il foglio dal rullo e
cominciai a leggerlo mentalmente.
Sentii che qualcosa dentro di me si stava muovendo,
avvertii un formicolio sulla punta delle dita, che si tramutò in un impellente
bisogno di contatto con i tasti di plastica bianchi. Avvicinai le mani alla
tastiera ma due colpi timidi alla porta mi fecero tornare indietro bruscamente.
Mia madre entrò timorosamente, in un’espressione che raramente
le avevo visto negli occhi: uno sguardo carico di tristezza, le braccia a
proteggere lo stomaco come in una sensazione di freddo intenso, un freddo
interiore che sfianca e demolisce l’anima.
La guardai senza capire, mi guardò senza parlare.
Voleva venirmi incontro e abbracciarmi ma qualcosa le
bloccava i movimenti, un muro invisibile ed invalicabile tra di noi.
«Luca.»
Questa fu l’unica parola che disse prima di scoppiare
in lacrime.
Mi alzai di scatto e la raggiunsi, le afferrai le
spalle e la pregai di continuare. Quel nome sospeso nell’aria mi faceva
impazzire.
E ad un tratto capii.
Un pensiero tremendo si insinuò in me; tentai di
scacciarlo ma non voleva abbandonarmi. Avevo bisogno che quel nome non fosse
solo un’espressione solitaria, pretendevo di più, pretendevo di sentire parole
che mi aiutassero a cacciare il mio sospetto preventivo, ma ciò che seguì ebbe
l’effetto contrario.
«Ieri sera ha fatto un incidente col furgone.» disse tra
i singhiozzi.
Nell’aria aleggiava la parola maledetta, mai
pronunciata ma tremendamente presente, che ricadde su di me in tutta la sua
gravezza.
Le mie gambe cedettero sotto il peso del corpo e
ricaddi sul letto.
Mia madre mi si avvicinò e mi abbracciò dall’alto, riversando
su di me tutto il suo sconforto.
La mia testa pesante poggiata sul suo addome, i miei
occhi divennero ciechi ed incolori.
Tutto si fece silenzioso, come durante una nevicata
intensa nel cuore della città.
Sentii le mani fredde accarezzarmi i capelli e
scendere sul viso, sentii il suo sguardo triste ed impotente su di me.
Si inginocchio e appoggiò la sua fronte alla mia;. era
da tempo che non guardavo i suoi occhi da così vicino, avevo dimenticato il
loro colore. Vidi una debole luce combattere con gli anni e le ferite.
Avrei dovuto piangere e disperarmi ma mi sembrò di
non esserne capace.
Guardavo mia madre come si osserva il vuoto e,
all’improvviso, non la vidi più.
tratto da un romanzo senza titolo (2006)
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