mercoledì 8 maggio 2013

Estratto #3


La mia Voce”, ecco cos’era.
Divoravo le parole in preda ad una crisi mistica e credevo realmente che le avesse scritte per me. Ero convinto che l’aver ritrovato il quaderno in una sera così particolare, in un luogo talmente importante per me, non potesse essere altro che un segno.
Perché io e non altri? L’unica spiegazione plausibile era… il Destino.
Riposi il quaderno nel mio Cassetto delle cose segrete ma avrei dovuto fare la stessa cosa con i miei pensieri. Per tutta la notte, invece, non feci altro che rivolgerli a lei, alle carezze di sua madre e a Jessy.
Sarei andato avanti nel leggere fino ad incontrare nuovi fogli immacolati ma non volevo divorarla. Il rischio di perdermi anche solo una linea sottile della sua anima sarebbe stato altissimo e non me lo sarei perdonato!
Una vita alternativa… Sapevo a cosa si riferiva, l’avevo cercata anche io in passato, chiuso nella mia camera a consumare la tastiera del pc.
Non c’erano bottiglie vuote o piccoli rotoli di allucinazioni. C’era solo la mia mente che vagava in maniera del tutto naturale. Finché ogni cosa svanì e mi ritrovai a boccheggiare in questo oceano.
La differenza tra noi era solo nel fatto che non avevo nessuno da incolpare, ad eccezione di me stesso. Tutti i fallimenti che caratterizzavano la mia vita avevano un unico colpevole protagonista: IO.

Ore 9.05 del mattino: l’arrivo di un messaggio sul cellulare mi catapultò nel presente. Quando lo avevo acceso?
L’amabile società di telefonia mobile, nella quale avevo così ingenuamente riposto le mie speranze comunicative col mondo esterno – dovevo essere pazzo! – mi informava che il credito era inferiore ai tre euro.
Che notizia terribile! Come avrei potuto organizzare un mega-party nel mio mega-monolocale in quelle condizioni? Un’angoscia che mi consumò le viscere per sette secondi netti.
Mi resi conto, grazie ai brontolii del mio stomaco, che erano pressappoco dodici ore che non ingerivo niente di solido. Era giunto il momento di rituffarmi nella gloriosa vita da single.
Mi avvicinai al frigorifero, convinto che la cosa non mi avrebbe impegnato per più di una decina di minuti. Quel pensiero era incredibilmente lontano dalla realtà!
Ancora il maledetto deserto di ghiaccio ad annientare la mia autostima e, questa volta, nemmeno i due cassettoni delle sorprese potevano aiutarmi.
Tremai all’idea di dover… andare al supermercato!
La mia idiosincrasia per quel luogo era frutto di terribili ricordi infantili, nei quali mi vedevo trascinato da uno scaffale all’altro, spingendo un carrello sempre più colmo e pesante, dovendo compiere vere e proprie acrobazie per non mozzare centinaia di gambe appartenute ad altrettanti clienti che, con molta furbizia, avevano scelto proprio quel luogo e quell’ora per riempire le loro case di cianfrusaglie inutili.
Il tutto si concludeva con interminabili file alla cassa, dove mia madre amava soffermarsi a chiacchierare con le sue amiche di argomenti frivoli, dai quali non potevo mai sottrarmi dall’esserne l’oggetto.
Riflettei a fondo sulla situazione, cercando vie alternative allo strazio che mi stava aspettando ma, alla fine, dovetti desistere dall’idea che qualche giorno di dieta forzata non avrebbe potuto che farmi bene.
Mi infilai la giacca di velluto ed uscii di casa.
Un tiepido sole tentava di asciugare le strade, ancora bagnate dalle piogge della notte appena terminata.
Quanti passi compirà un uomo nell’arco della sua giornata? E nella sua vita? Sono cose che mi hanno sempre incuriosito e per le quali, molto probabilmente, non avrò mai risposta. Sarebbe come pretendere di sapere quante stelle ci sono nel cielo. Nessuno si metterà mai a contarle…
Le porte automatiche del supermercato non si aprirono immediatamente al mio arrivo; sembrarono diffidenti nei miei confronti.
Una volta dentro fui inondato dalla luce fredda dei neon e dalla musica gracchiante in filodiffusione.
A quell’ora del mattino, solo le imperterrite vecchiette del quartiere popolavano gli scomparti e le celle frigorifere tutt’intorno a me.
Mi sono sempre chiesto perché ci sono persone che vengono al supermercato ogni dannatissimo giorno e comprano le stesse dannatissime cose in quantità industriale. Dove cavolo le mettono?
Forse fingono di comprare tutta quella roba. In realtà si presentano alla cassa con qualche fetta di prosciutto ed un rotolo di carta igienica ed il loro intento - o, sarebbe meglio dire: “il loro assoluto bisogno” -  è svagarsi per qualche mezz’ora giocando alle formiche accumulatrici.
Cominciai a passeggiare tra gli scaffali senza avere la minima idea di cosa comprare: non ho mai amato le liste della spesa!
La mia attenzione fu attirata da un TrePerDue su bustine di risotto ai funghi pre-confezionato. Di certo uno chef parigino sarebbe inorridito all’idea ma, mentalmente, non potevo permettermi altro: l’arte del cucinare non era mai stata mia.
“Moglie in vacanza?”, intervenne una vecchietta, vestita a lutto da chissà quanti decenni.
“Prego?”
Indicò le tre buste nelle mie mani con un sorriso che lasciava trasparire un’odiosa pietà nei miei confronti.
“Ah sì, questi… Beh, non ho molto tempo per cucinare.”
“E dove è andata?”.
Il suo sguardo passò dall’essere impietosito all’essere incuriosito.
“Chi?”
“Sua moglie.”
“Non sono sposato.”
“Come? Un bel giovanotto come lei non è sposato?”
“Lo ero ma ci siamo separati.”
 “Oh, come mi dispiace!”
L’idea sembrava realmente affliggerla.
“Quando ero giovane io, e si parla di molti anni fa, ci si sposava presto e non ci si lasciava più. Al giorno d’oggi, invece, fanno tutti le cose senza pensare e prendono tutto alla leggera… Ai miei tempi non ci si separava mica, sa?”
“Signora mia, ai suoi tempi non esisteva nemmeno la possibilità di farlo.”
“Io non l’avrei fatto comunque!”, rispose un po’ seccata. “El me’ marì…”, disse segnandosi “…l’era inscì brav! Lavorava tutto il santo giorno e quando veniva a casa mi portava sempre a ballare. Lei sa ballare?”
“Direi di no…”
“Neanche un ballettino?”
“No, mi creda!” 
“Che peccato! Una volta le ragazze le si conquistava ballando, mica come fate adesso…”
“E come facciamo adesso?”
Ero davvero curioso di sapere come le vecchie generazioni ci vedessero.
“Mah… con quel Internèt…Che, tra l’altro, non ho ancora capito bene cos’è.”
In fondo la signora era piuttosto dolce.
“Devo cominciare a fare un po’ di volontariato nelle case di riposo.”, pensai.
“Ma lei è il figlio della Luisa?”, chiese saltando di palo in frasca.
“No, signora. Mia madre si chiama Amanda.”
“Ah, non è il figlio della Luisa… Mi sembrava di conoscerla…”
Se ne andò senza aggiungere altro, spingendo il suo carrello mezzo vuoto, per poi scomparire girando l’angolo della corsia.
Sorrisi guardandola dileguarsi tra farina ed olio d’oliva.
Dopo una ventina di minuti ed un paio di chilometri percorsi avanti e indietro tra il reparto salumeria e i banchi-frigo dei latticini, il mio carrello fu inaspettatamente pieno.
Alle casse, fortunatamente, la fila non era molto lunga.
Tuttavia, un uomo di mezza età, dall’aspetto decisamente notarile, aveva deciso che avrei dovuto passare l’intera mattinata a sentirlo discorrere sul rapporto qualità-prezzo di una nuova marca di detersivo per pavimenti, a suo dire esageratamente costoso in proporzione alla misera quantità contenuta nel flacone.
Avrei voluto regalargli una di quelle cassette di legno, solitamente utilizzate per contenere la frutta nei mercatini settimanali, che sarebbe diventata il suo pulpito da predicatore.
La cassiera tentava di ribattere garbatamente alle sue considerazioni di consumatore defraudato ma si capiva lontano un miglio - e come darle torto - che della questione non le importava un fico secco.
Me ne stavo lì, spalmato sulle mie costolette di maiale ad assorbire tutta la noia e il malumore che volteggiavano nell’aria, quando sentii una voce pronunciare il mio nome, perforandomi come una coltellata all’addome.
Mi voltai lentamente, nella speranza di aver avuto solo un'allucinazione uditiva ma, quando la voce assunse forme umane, un brivido percorse la mia spina dorsale, dall’alto in basso.
“Sei proprio tu?”
Ero proprio io e lei era proprio la donna che mi aveva privato di anni di sonno beato: Marisa, la mia ex-moglie.
“Ciao Marisa.”
Non sapevo se fosse più conveniente nascondere l’imbarazzo o il disprezzo che quell’incontro mi provocava, così decisi di manifestare entrambi.
“E’ passata una vita dall’ultima volta che ci siamo visti!”, disse sorridente.
“Dici? A me sembra sia volato, il tempo.”
Non era vero, furono i tre anni più lunghi della mia vita, anche se non a causa della sua mancanza.
“Allora, come te la passi?”
“Beh, direi piuttosto bene!”
Anche questo non era vero ma non volevo darle la soddisfazione di vedermi come un uomo allo sbando.
“Bene, sono contenta!”
Ci furono interminabili secondi di silenzio tra noi, durante i quali progettai svariati modi carini per andarmene e lasciarla al predicatore del consumismo.
“E, dimmi, stai con qualcuno ora?”, chiese più per spezzare l’imbarazzo che per un reale interesse per la mia vita sentimentale.
“Sono appena uscito da una storia. Niente di importante, solo una semplice avventura.”
Non mi ricordavo capace di inventare tante balle e così ben congeniate.
“Mi spiace!”
“No, non ti preoccupare. Mi ero stancato e ho deciso di troncare. E tu? Stai con qualcuno?”
“No, direi di no…Siamo ancora due single incalliti, dunque?!”, disse sottolineando le sue parole con la classica risata stupida di una ragazzina imbarazzata.
“Così sembra… Come mai da queste parti? Pensavo abitassi ancora a…”
“In verità passavo di qui per caso e mi sono ricordata di non aver nulla da preparare per cena.”
“E te ne ricordi alle nove del mattino?”, pensai. La cosa puzzava alquanto.
Il notaio-predicatore alzò improvvisamente il tono della voce ed attirò la nostra attenzione.
“Ma non ha nient’altro da fare quello?”, disse Marisa.
“Avrà voglia di parlare con qualcuno.”
“Ok, ma non possiamo passare tutta la mattina bloccati qui!”
“Hai qualche appuntamento?”
“No, ma non mi va lo stesso di starmene qui ad ascoltarlo.”
Nel frattempo, una caritatevole dipendente del supermercato aprì una nuova cassa e i tre quarti della gente incolonnata nella nostra fila si trasferì da lei.
“Mi sposto anche io.”, disse Marisa, probabilmente con la speranza che la seguissi.
“Io resto qui a sentire come finisce la predica.”, risposi ironicamente.
Marisa sorrise ma sembrava che per qualche ragione non volesse muovere il primo passo verso la fila più veloce.
“Senti, so che probabilmente non è una buona idea ma…”
“Ma?”
“Perché stasera non vieni a cena da me?”, chiese visibilmente imbarazzata.
“Hai ragione: non è una buona idea!”
“Dai Primo, non stare così sulla difensiva. È solo per ricordare i bei vecchi tempi.”
“L’unico aggettivo che non posso certamente associare ai vecchi tempi è bello!”
“Lo sai che non è così. Siamo stati bene prima di…”, si interruppe.  
Pensò di essersi fermata in tempo dal ricordarmi la causa della nostra separazione ma non sapeva che, dal primo istante in cui l’avevo rivista, il suo simpatico aneddoto extraconiugale era l’unico pensiero che avevo in testa.
Tuttavia, dovetti riconoscere che, in fondo, quello fu l’unico momento veramente tragico e deprimente del nostro matrimonio. Tutto il resto, come ho già raccontato, era un quieto vivere.
“Ti prego!”, insistette sfoggiando il suo proverbiale sguardo da cerbiatta ferita.
Finsi di riflettere per qualche secondo ma ero conscio di aver già deciso nel momento stesso in cui me lo aveva chiesto. Alla fine accettai.
“Allora ci vediamo stasera alle otto!”, disse entusiasta. “Tanto dove abito lo sai, no?”
Se ne andò con un sorriso raggiante e la sua indimenticabile andatura da infermiera stanca.

“Che cosa hai fatto? Hai accettato di andare a cena con la tua ex-moglie? L’hai fatto davvero? Che stupido che sei!
Come pensi che andrà la serata, eh? Comincerete a ricordare i vecchi tempi, fino a farvi coinvolgere negli aneddoti più divertenti; berrete qualche bicchiere in più e BOOM, finirete a letto insieme in men che non si dica!
E poi? Ti fermerai a dormire da lei per la notte, forse per due o addirittura per tre, fino a quando non lascerai lì il tuo spazzolino da denti e ricomincerà tutta la solfa! E’ questo che vuoi, Primo? Vuoi rovinarti la vita un’altra volta?”.

Come al solito il mio buonsenso si era fatto vivo quando ormai tutto era compiuto e non servì ad altro che aumentare i miei sensi di colpa.
Ma c’era qualcosa, dentro di me, che combatteva e si dimenava per uscire allo scoperto. Quella stupida sensazione si chiamava “Speranza”, speranza di trovarla cambiata, più interessante, più attraente di come la ricordavo.
D’altronde, tutti cambiamo. Certo, alcuni lo fanno in peggio ma pur sempre di cambiamento si tratta.
E poi chi mi dice che non si sia resa conto fino in fondo di quello che mi ha fatto e non si sia flagellata per tutto questo tempo, promettendosi che, se mai avesse avuto la possibilità di incontrarmi nuovamente, avrebbe fatto di tutto per rendermi felice?
Volli darle una possibilità di aggiustare parzialmente le cose. Non c’era niente che avrebbe potuto fare o dire per farmi dimenticare quello che era successo ma, per Dio!, tutti possiamo commettere degli errori e tutti dobbiamo avere la possibilità di porvi rimedio.
Oltretutto, non avevo nient’altro da fare quella sera.

Alle otto e dieci minuti suonai il campanello di casa sua, con una bottiglia di vino bianco a buon mercato nella mano destra ed un vassoio di pasticcini nella sinistra.
Vidi che aveva ancora mantenuto la targhetta col mio cognome sulla porta d’ingresso e questo fu un segno inequivocabile delle sue intenzioni mai sopite.
Venne ad aprirmi immediatamente, come se mi aspettasse da ore con l’occhio incollato allo spioncino.
Era incredibilmente elegante e tirata a lucido come non l’avevo mai vista.
I capelli, portati sempre sciolti, ora erano raccolti in una deliziosa cascata di riccioli biondi. Il trucco era leggero ma ben curato ed un paio di orecchini luccicanti rendevano il suo viso assai fresco e giovanile.
E quel vestito… Una leggera camicetta bianca in trasparenza, abbinata ad una lunga gonna nera con spacco laterale, lasciavano intravedere forme certamente segnate dal tempo ma ancora piuttosto attraenti.
“Perché non ti sei mai vestita così quando stavamo insieme?”, pensai.
Mi fece accomodare in salotto e, non so per quale istinto masochista, mi sedetti nello stesso punto dal quale avevo posto fine alla nostra storia.
“Sono contenta che sei venuto! Avevo paura che, nonostante avessi accettato l’invito, avresti cambiato idea all’ultimo minuto.”, disse.
“Perché avrei dovuto farlo?”
“Già, tu non cambi mai idea…”
Era questa la prima frecciatina della serata?
Stappai la bottiglia che avevo portato e brindammo al nostro incontro.
La tensione nell’aria si tagliava a fette; mi sarei preoccupato se non fosse stato così.
Inizialmente i nostri discorsi verterono su argomentazioni futili, frasi di convenienza e finti interessamenti sulle nostre esperienze lavorative degli ultimi anni.
Con particolare disinteresse, venni a sapere che aveva abbandonato il lavoro che faceva quando eravamo sposati ed era stata assunta come parrucchiera in un piccolo negozio in città. Era piuttosto contenta della sua nuova occupazione anche se, per raggiungere il negozio, doveva sorbirsi ogni giorno quasi un’ora e mezza di autobus e metropolitana.
Si rammaricò per il mio recente licenziamento e si propose come valido aiuto per la ricerca di un nuovo lavoro.
La cosa non mi interessò particolarmente; non tanto per la sua offerta ma per il fatto che per qualche tempo desideravo staccare un po’ la spina dalla vita e riordinare le mie idee. Quello che avevo guadagnato in passato mi avrebbe permesso di farlo e, così, mi ero concesso il classico anno sabbatico.
Più passavano i minuti e meno mi sorprendeva; mi resi ben presto conto che, in fondo, non era cambiata per nulla. Il suo carattere era sempre dominato da quell’indole prevaricatrice, che un tempo mi avrebbe fatto comodo ma che ora provocava in me solo disgusto.
I suoi malesseri, come le sue gioie, erano veramente avvilenti, incentrate su una stupida smania di votare la sua vita al materialismo più volgare.
Il suo unico scopo era rimasto quello di sempre: mandare avanti la casa e risparmiare quanto più possibile, in modo da poter affrontare una vecchiaia serena. Quello che ignorava, però, era che fosse già irrimediabilmente vecchia, non nell’età o nel fisico ma nei pensieri.
La cena si dimostrò un colossale fallimento sotto ogni aspetto: dalla cucina scadente ai discorsi inutili, dall’avvilente atmosfera di famiglia ritrovata che si era creata all’insopportabile musica in sottofondo, che Marisa aveva erroneamente eletto a collante della nostra ri-unione.
Il mio vinaccio era l’unico motivo valido per rimanere in quella casa.
Non ci volle molto a far entrare Shara nei miei pensieri.
Per tutto il resto della serata mi sentii come attratto irresistibilmente dal suo ricordo, come se fossimo legati da un filo invisibile che si ritraeva e mi trascinava con forza verso di lei.
Mi chiesi più volte dove fosse e cosa stesse facendo.
La immaginai distesa sul suo letto ad osservare il soffitto, sorseggiando un bicchiere di buon vino rosso, mentre una musica leggera accompagnava i suoi incubi e la trainava verso un sonno che non sarebbe mai stato ristoratore.
Avrei voluto raggiungerla ed abbracciarla, accarezzarle i capelli e condividere la sua agonia, cantarle dolci melodie d’infanzia e restare ad ammirarla nel dormiveglia.
Per qualche strana ragione l’associavo continuamente alla mia Voce, la Voce del quaderno. Le due personalità, per quanto poco conoscessi di entrambe, combaciavano perfettamente nei miei sogni.
Le parole appartenevano a quel corpo angelico, il quaderno era la Voce della Dea.
“Voce della Dea”. Decisi che questo sarebbe diventato il nome del quaderno.
Marisa sembrava non accorgersi dei miei viaggi mentali e continuava imperterrita nello sproloquio in cui si era addentrata senza pudore. Le sue parole non avevano più importanza della musica che fuoriusciva dall’impianto stereo.
Di tanto in tanto mi riportava bruscamente alla realtà con domande idiote, alle quali rispondevo telegraficamente. Come poteva essere così stupida da non accorgersi della mia profonda noia?
Dopo un’ora abbondante di rigurgiti dell’anima, decisi che era giunto il momento di togliere il disturbo.
Non fece nulla per nascondere il suo dispiacere; d’altronde la mezza bottiglia di vino che si era scolata non gliel’avrebbe mai permesso.
Una volta raggiunta la porta d’ingresso, si lanciò in un ultimo disperato assalto e mi abbracciò, con tale forza ed intensità emotiva che mi spaventarono.
“Mi spiace per quello che è successo!”, disse alla soglia di un pianto fragoroso.
“Se c’è anche solo un modo per tornare indietro, ti prego, dimmelo e lo farò…”
“Ok, Primo. Questo è il momento giusto per dimostrare al mondo, ma soprattutto a te stesso, che non sei un mostro senza cuore. Questa donna sta realmente soffrendo e, per quanto poco possa interessarti, ha il diritto di ritrovare un attimo di pace. Quindi, caro mio, datti da fare e pensa a una parola consolatoria che la possa rendere felice.”
Maledetta coscienza!
“Vedi, Marisa, ormai il passato non si può più cancellare. Ok, hai fatto un errore e, in un certo qual modo, sono anche disposto a perdonarti. Ma, credimi, se il tuo desiderio è di ricostruire qualcosa tra noi, ti prego, fermati! È passato troppo tempo per pensare che le cose possano tornare come prima.
Siamo cambiati entrambi, non è vero? Ce ne siamo accorti proprio stasera. E cambiando abbiamo preso due strade molto, troppo diverse.”
“Ma io non posso…”
“Si che puoi!”, la interruppi.
“Anzi, devi! Sei una donna ancora giovane e piuttosto attraente. Devi pensare a rifarti una vita senza di me. E poi, vorresti davvero tornare con un tipo come me?
Guardami: ho quasi trent’anni, sono disoccupato e senza troppe aspettative nel futuro. Tu sei una donna dinamica, che sa quel che vuole. Io ti sarei solo d’intralcio.”
Stava per rispondere qualcosa ma, probabilmente, il mio sermone le aveva aperto gli occhi e mostrato quello che prima si sforzava di ignorare.
Ero riuscito con discreto successo a sbatterle davanti agli occhi la mia immagine di fallito. Chi meglio di me poteva sapere quanto non avesse mai potuto sopportare i falliti?
“Forse hai ragione…”, singhiozzò, mentre un lieve sorriso affiorò sul suo volto.
“Forse siamo realmente troppo diversi. Però nessuno ci impedisce di diventare buoni amici. Cosa ne pensi?”
Mi vennero i brividi.
“Potremmo vederci qualche sera alla settimana, magari andando a farci una birra.”, aggiunse.
 “Ci racconteremo i nostri dubbi e le nostre paure e collaboreremo reciprocamente nel risolvere i nostri problemi. Non è un’idea stupenda? È deciso: continueremo a vederci!”
Lo stava facendo nuovamente! Stava tentando di programmare la mia vita e, questa volta, voleva imprigionarmi tra mura di cemento armato.
“Allora, ti va di vederci Venerdì sera?”, chiese con un sorriso smagliante.
Cominciai a sudare; il cervello era ormai in panne e le mie mani presero a tremare vigorosamente. Dovevo trovare alla svelta una scusa per rifiutare il suo invito, dovevo scappare da li!
“Primo? Venerdì sera… ti va di vederci?”, insistette.
“NO!” urlai.
Mi divincolai dalla sua morsa e le chiusi letteralmente la porta in faccia.
Scesi le scale il più velocemente possibile, tanto che rischiai più volte di ruzzolare fino al piano terra.
Quando fui in strada, riuscii a prendere il primo autobus al volo, senza nemmeno sapere dove portasse. L’unico obiettivo della mia vita, in quel momento, era di allontanarmi il più possibile da quell’appartamento.
Una volta seduto, tremante dalla fatica e visibilmente sudato, ripensai a tutta la scena: la immaginai contorcersi sul pavimento per il terribile colpo subito in volto e piangere disperata per le ferite che avevo aperto nella sua anima.
Quella porta simboleggiava lo schiaffo che non ero mai stato in grado di darle.
Cominciai a ridere, a ridere di gusto.
I pochi viaggiatori presenti mi guardarono come si guarda un pazzo. Per loro non ero altro che uno dei tanti malati mentali che popolano la città al calar del sole.
Quello che non potevano minimamente sospettare era che, invece, io mi sentivo la persona più sana della Terra.



tratto da Micromillesimi (2008)

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