Non smette di piovere e questo mi tranquillizza.
Il panorama che si presenta, oltre i vetri puntellati di
gocce sporche, è quello che desideravo per oggi. Non avrei mai potuto
sopportare un’altra giornata di sole, colori e profumi straripanti allegria.
Oggi, come ieri e come i giorni precedenti, sono grigio e
grigio deve essere il mondo.
Mentre escogito un finale repentino e indolore alla mia
storia, l’ennesimo mozzicone si infilza nel cumulo di cenere che si erge dal
mio vecchio e caro bicchiere di cristallo, costellato di decine di incrinature,
simbolismo perfetto di milioni di secondi consumati e consunti nell’arco della
mia esistenza.
Indolore. È questa la parola che ricorre e si rincorre tra i
miei pensieri.
Lasciare il segno non è mai stata una mia prerogativa, in
particolar modo se il farlo comporti un incontro ravvicinato con la sofferenza.
Se fossimo in un paese realmente libero le alternative
abbonderebbero, tuttavia sono costretto a scervellarmi nel richiamare
l’intuizione della vita - ecco l’ennesimo paradosso - proprio nel momento in
cui devo… voglio porre fine ad essa.
“La nebbia si sta dileguando.” penso, e ho il timore che
tutto ciò abbia un significato preciso: un conto alla rovescia verso il termine
del tempo utile.
Come potrebbe mai, un uomo, ammazzarsi sotto un sole
splendente?!
Sbatto un cd nel lettore e chiedo aiuto a Ian; chi meglio di
lui saprebbe consigliarmi in una scelta così ardua?
La selezione 'random' mi sembra la più appropriata e decido
di attendere gli eventi che, in questo caso, si identificheranno con una
parola, netta, greve ed indelebile, ineluttabile.
Di nuovo quel dolore all’addome; porto le mani a proteggere
il lembo di pelle lancinante in un curioso e quanto mai inappropriato istinto
di sopravvivenza.
I timpani vibrano dall’interno e la voce di mia madre torna
ad empire la mia cassa cranica.
Se fosse qui, davanti a me, ben ritta e sostenuta dal suo
orgoglio d’altri tempi, mi prenderebbe a ceffoni nel leggere l’orda di malsani
pensieri che si propagano per la stanza.
Quello che però non potrebbe sapere, è che ho già desistito
da tempo, rinunciando alla felicità in nome di un ben più rilassante nulla.
Ieri, poco dopo aver preso la decisione forse più importante
della mia vita, ho cominciato a pensare al passato e ai volti che si sono
alternati frenetici davanti ai miei occhi.
Ho pensato alle voci, agli odori, alle mani.
Ho rivisto ed assaporato la pellicola sgranata che a fatica
si srotolava dalla bobina e ho scoperto che, in fin dei conti, il mio è un
gesto di assoluta follia; uno di quei raptus che un plotone di psichiatri
pluridecorati oserebbe associare, senza alcuna difficoltà, ad una lapalissiana psiconevrosi
ossessiva, nella quale il mio io
distruttivo prende il sopravvento in via definitiva.
Ho dovuto sorbirmi queste stronzate per anni ed io, in
questo preciso momento, sono la dimostrazione pratica che i dottori veri sono di gran lunga più
affidabili di quei cantastorie ebbri di paroloni senza significato.
Stavo pensando di fotografarmi durante l’atto, in modo da
lasciare ai posteri un’immagine inequivocabile, che possa essere pubblicata a
pagina 5712 di un qualsiasi libro di psichiatria. Ovviamente la didascalia
dovrebbe recitare: ESPERIMENTO FALLITO.
Per fare questo, però, devo trovare un metodo consono e, a
questo punto, spettacolare; chi sarebbe interessato all’immagine di un uomo a
testa china sul tavolo, senza il minimo accenno di globuli rossi a profusione?
Mi connetto nuovamente alla rete in cerca di alternative
autolesioniste e mi imbatto in un sito singolare, dove qualche pazzo - ma
infinitamente meno pazzo del sottoscritto - illustra le varie opzioni di
scelta, a mo’ di catalogo:
SUICIDIO
CON UN VELENO FATTO IN CASA
Per prima cosa dovete
farvi il veleno, è molto semplice: prendete un contenitore di rame, lo riempite
di piombini che ricoprirete con dell'aceto, chiudete bene il contenitore di
rame e lasciatelo riposare per almeno due settimane, poi vi preparerete
un'insalata che condirete con l'aceto avvelenato e dopo un po' morirete.
Le due settimane e il “dopo un po’” mi spronano a passare
oltre.
Se lavorate in un
ospedale potete rubare dei barbiturici o del veleno come cianuro, arsenico,
stricnina ecc. e mangiarlo. Se usate i barbiturici, per piacere non avvertite
qualcuno quando li prendete, questo perché se lo sa qualcuno avverte il 118 o
enti analoghi i quali vi vengono a prendere dove vi trovate, vi fanno una
lavanda gastrica, vi salvano e voi oltre a non essere morti vi fate pure la
figura di merda del pazzo che si vuole suicidare!!!
Se penso a tutti i pomeriggi sprecati a contare le
mattonelle del policlinico mi assale una rabbia incontrollabile.
Se volete soffrire un
po' è meglio la corrente elettrica, è molto semplice: dovete prima disattivare
il salvavita poi o vi leccate le dita e le mettete nella presa, starete lì fino
a quando sarete totalmente carbonizzati. Oppure riempite la vasca da bagno di
acqua, vi mettete dentro e buttate nella vasca un phon acceso. Dovreste morire
in pochi secondi.
Certo, il pensiero di non possedere un salvavita rende tutto
ciò alquanto stimolante; tuttavia l’odore di bruciato mi provoca nausea e,
grazie alla mia sfortuna congenita, sfilerei le dita dalla presa prima di
raggiungere il traguardo. Non solo sarei ancora di qua ma mi ritroverei ad imprecare dal dolore provocato da due
dita arrostite.
SUICIDIO PER ASFISSIA
(ANNEGAMENTO)
Potete anche imitare i
pesci: vi fate legare mani e piedi, vi legate dei pesi sul corpo (l'ideale sono
grosse pietre o piombi) e vi buttate in un lago, in un fiume, in mare eccetera.
Abitando in periferia mi vedo costretto a declinare verso
altre possibilità.
Una tecnica
"angelica" è quella di imitare gli uccelli. Vi potete buttare da
qualsiasi cosa alta, come ponti, viadotti, grattacieli, palazzi, burroni, vette
eccetera
Indubbiamente il metodo più affascinante ma dovrei trovare
qualcuno disposto ad armeggiare con la mia macchina fotografica e dovrebbe
essere uno bravo. Non mi accontenterei affatto di uno scatto a mezz’aria, senza
arte né parte; pretenderei una sequenza di momenti più significativi del volo,
fino al culmine dello schianto fragoroso e dell’effluvio ematico.
Spengo il pc sconsolato, nemmeno la tecnologia mi è venuta
in soccorso.
Mi sdraio sul letto ad osservare il soffitto, nella speranza
che scenda Dio dal cielo a darmi l’ispirazione.
Lo stereo passa in rassegna tutte le tracce del cd che, con
infinito amore, avevo composto e dedicato a Lei, unico grande amore della mia
vita. Lo stesso cd che mi aveva scagliato addosso al termine della nostra
storia, ponendomi in elevato rischio di semi-cecità.
L’ultima nota riecheggia e rimbalza tra i muri bianco-smunto
della stanza, fino a ricadere sulle mie palpebre che, un secondo dopo, si
serrano e sigillano pesantissime.
Mentre la mente sta per oscurarsi ed il sonno prendere il
sopravvento, un ultimo pensiero si anima e mi distrae dal dormiveglia:
“Giuro sulla mia vita che domani ci riprovo!”
(2008)
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