La serata stava scorrendo
sonnecchiante.
Nemmeno la mia preziosa videoteca
era riuscita a strapparmi alla monotonia; pur regalandomi due ore in piacevole
compagnia di Jules e Vincent, alla fine mi ritrovai a sbuffare a pancia in su.
Decisi che era giunto il momento
di scrivere la parola “Fine” nei titoli di coda di una giornata snervante e me
ne andai a dormire.
Passai quasi un’ora a fissare il
soffitto sporco attendendo l’arrivo di Morfeo e, proprio quando stavo per
abbracciarlo, il trillo lacerante del telefono mi fece sussultare.
Mi ero preoccupato di rendere
innocuo il cellulare ma non avevo minimamente calcolato il telefono fisso.
“Pronto…”
“Ciao relitto!”
Ecco il mio simpatico amico Bat,
diminutivo di Battista, trentenne ultradinamico conosciuto in un villaggio
turistico a Sharm el-Sheikh l’anno precedente, quando ero convinto che il mio
stato di neo-single-in-cerca-di-una-nuova-vita
mi avrebbe favorito nell’aspra lotta intestina del genere maschile alla ricerca
di donne libertine.
“Ciao Bat.”
“Come stai uomo-muffa?”
“Bene. Sono disoccupato…”
“Cazzo! Non sai come ti invidio!”
non era ironico, mi invidiava davvero. “E come è successo?”
“Come vuoi che sia successo? E’
successo e basta.”
“Giusto.”
“A cosa devo questa tua quanto
mai opportuna telefonata alle…” guardai l’orologio: ventitrè e trenta! Questo
voleva dire che ero andato a dormire alle dieci e trenta di sera! Mi resi conto
che avevo bisogno di una svolta.
“Non mi dirai che ti ho
svegliato? A quest’ora?”
“Non stavo dormendo.”
“Allora stavi…? Ma figurati, non
ci credo neanche se lo vedo!”
“Tranquillo, non succederà mai.”
“Che cosa?”
“Non mi farò mai vedere da te
mentre… Al massimo ti faccio una cassetta e te la spedisco.”
“No grazie. Lo sai che non mi
piacciono gli horror.”
“Vecchia battuta! Piuttosto, cosa
mi dovevi dire?”
“Ah sì… Vestiti che sto passando
a prenderti.”
“Per andare dove?”
“Mi hanno parlato di un locale
troppo cool…” tremai nel sentirgli pronunciare questa parola.
Ogni volta che lo aveva fatto, in
passato, mi ero sempre ritrovato a giocherellare con un bicchiere di plastica
in preda ad una noia massacrante.
“Però muoviti che è dall’altra
parte della città e ci si mette un po’ ad arrivare.”
“Ok, mi infilo una felpa e
scendo.”
“Una felpa? Di che colore?”
“Cazzo vuol dire ‘di che
colore’?”
“Dimmelo, è importante!”
Mi guardai intorno alla ricerca
di una felpa.
“Rossa.”
“No, lascia stare, meno colori
avrai addosso e meglio sarà…”
“Io in macchina con te non ci
vengo!”
“Perché?”
“Perché sei già ubriaco!”
“No, fidati sono lucido. È che
questo è un locale dark, quindi capisci benissimo da solo che vestirsi da
Arlecchino non è la cosa migliore.”
“Vedrò cosa posso fare…”
“Bravo!” riagganciò senza
salutare.
Rovistai nel mio armadio alla
ricerca di tutto ciò che poteva essere più scuro possibile. Non ero mai stato
un dark e tentare di diventarlo a ventinove anni era tutt’altro che semplice.
Riuscii a scovare un paio di
jeans neri e una felpa grigio scuro, il massimo della tristezza cromatica che
mi potessi permettere.
Dopo cinque minuti precisi, Bat
arrivò a casa mia. Non ebbe bisogno di citofonare, lo riconobbi dalla lunga e fragorosa
sgommata che lasciò sull’asfalto. Era la sua firma.
Quando mi richiusi alle spalle il
pesante portone di ingresso del mio palazzo, lo vidi a bordo della sua Peggy
Blue, immerso in quell’abitacolo iper carico di decibel e luci colorate. Grazie
a Bat, e al suo allestimento elettronico, avevo ricominciato a soffrire il mal
d’auto dopo vent’anni.
Salii in macchina e mi sottopose
ad un check up dettagliato: trenta interminabili secondi di sguardi impudenti
dalla testa ai piedi. A un certo punto ebbi il timore che avrebbe squadrato
persino la mia biancheria intima.
Il suo silenzio al termine
dell’esame fu il segnale che, in fondo, ero riuscito a non deludere le sue
aspettative.
Il suo SintolettoreCdRWMp3RadioRDS sputava note non troppo definite da non
so quanti altoparlanti, disseminati negli angoli più reconditi della vettura.
“Come si chiama questo posto?”
chiesi in cerca di qualche rassicurante informazione.
“Shelter.”
“Come?” il volume della musica mi
provocava leggerissime difficoltà ricettive.
“SHELTER!” gridò.
“E dove si trova?”
“Di là.”, disse indicando verso
Sud.
Ora ero veramente tranquillo:
stavo per passare la serata con il mio amico SbagliaSerate, in un locale del tutto sconosciuto che si trovava a
non so quanti chilometri “di là”, con gente che non poteva essere più diversa
da noi.
Mi venne da vomitare.
“Ma tu ci sei mai stato prima?”
“No.”
“Bene!”, risposi sconsolatamente
ironico.
“Dov’è il problema? Mi hanno
detto che è fantastico. Io mi fido dei miei amici.”
“Io no.” sussurrai.
“Cosa?”
“Niente…”
“E poi mi hanno detto che è pieno
zeppo di carne fresca!”
Ecco il suo poetico modo di
definire il gentil sesso dai 18 ai 25 anni. Mi immaginai Bat dietro al bancone
di una macelleria, intento a decantare la qualità delle carni appese ai robusti
ganci metallici.
Peggy Blue sfrecciava lungo le
strade, sempre più deserte man mano che ci allontanavamo dal centro città.
Non so come facesse, ma Bat aveva
l’incredibile capacità di non trovare mai sul suo cammino un semaforo rosso.
Sembrava calcolasse la giusta velocità per non dover mai essere costretto a
pigiare il pedale del freno. Da quando lo conoscevo, non riuscivo a ricordarlo
anche solo una volta fermo ad un semaforo. Se fosse stato un tassista, sarebbe
fallito in una settimana.
Arrivammo al locale in poco più
di quindici minuti, il che non coincideva affatto con quello che mi aveva detto
al telefono: il suo “Ci si mette un po’ ad arrivare…” doveva essere una frase
retorica.
Ci ritrovammo in aperta campagna,
sul ciglio di una lunga strada provinciale, dove la parola “lampione” pareva un
termine della neolingua Orwelliana.
Il parcheggio era uno spiazzo
sterrato e fangoso davanti a un ristorante-balera, dal quale fuoriusciva musica
stagionata a basso contenuto erotico. Del nostro locale, però, non c’era
traccia.
“Ma sei sicuro che sia qui?”
“Ho mai sbagliato una volta?”,
chiese quasi stizzito.
“Beh, più di una, direi…”
“Ok, potrò aver sbagliato sul
tipo di serata ma non sulla destinazione!”
“Forse qualche volta sarebbe
stato meglio se avessi invertito le cose.”
“Comunque è qui, fidati.”
Parcheggiò Peggy Blue in terza
fila, proprio di fianco a qualcosa che ricordava molto l’auto cibernetica di
Automan.
Percorremmo lo spiazzo di fango a
passi vistosamente irregolari, nel tentativo di non cadere in qualche sabbia
mobile, disseminata nell’oscurità.
Ci ritrovammo davanti
all’ingresso del ristorante-balera senza la minima idea di dove andare.
All’interno, un paio di coppie rugose rasentavano l’infarto, scatenandosi in
una tango che nulla aveva di sensuale. Il resto era desolazione pura.
“Caro mio, ho paura che questa
volta ti sei perso.”, dissi.
“Innanzitutto non mi sono perso e
poi, anche quando fosse così, ci siamo persi entrambi.”
“Entrambi? Tu sapevi dov’era sto locale e tu
guidavi. Quindi tu ti sei perso.”
“Ma no, abbi fede.”
“E in base a quale strano
principio dovrei avere fede?”
“Guarda la.” indicò il
parcheggio. “Quante macchine vedi?”
“Un centinaio, forse…”
“E ora guarda la.” indicò
l’interno del ristorante-balera. “Quante persone vedi?”
Sorprendente, aveva ragione! Il
numero delle cariatidi non giustificava affatto tutte quelle auto parcheggiate.
Inoltre, intorno a noi c’era solo campagna, nessun altro bar, ristorante,
centro commerciale, niente di niente.
“E per finire: guarda la.”
Indicò orgoglioso una coppia di
figure, nero vestite, dirigersi verso un cancello laterale, che non avevo
assolutamente notato.
“Dovrei cominciare a fare qualche
scommessa con te, arrotonderei il mio stipendio.”, disse trionfante.
Seguimmo la coppia oscura oltre
il cancello e poi giù per una corta rampa cementata e, in pochi secondi, fummo
davanti all’ingresso dello Shelter.
Entrando, venimmo subito sommersi
da una quanto mai frenetica versione di Poison
Pen a tutto volume e ci accodammo
agli altri avventori alla cassa.
“Ancora non sono entrato e già
devo pagare…” pensai sconsolato, ma poi mi ricordai che il mondo funziona così.
Mentre attendevamo il nostro
turno, cominciai a guardarmi attorno nel tentativo di capire in che razza di posto
fossi capitato e scorsi un cartello, appeso proprio di fianco a due buttafuori,
che timbravano mani come un dipendente delle Poste timbra pacchi. Il cartello recitava:
“Si prega la clientela di presentarsi esclusivamente in abbigliamento dark. La Direzione.”
Cominciai a pormi domande
altamente esistenziali sul significato delle parole che avevo appena letto:
- Che cosa intende La Direzione per “abbigliamento dark”?
- Cosa rende un capo di abbigliamento “dark”? Forse il nero?
- Cosa vuol dire essere “dark”?
- Esiste una Direzione, in questo posto?
- Ci voleva una Direzione per scrivere quel cartello?
Dopo minuti interminabili mi
ritrovai di fronte ad una donna di mezza età, classica madre di famiglia
bisognosa di stipendio extra e vistosamente agghindata per l’occasione, che mi
sorrise e mi salutò cordialmente, come se ci conoscessimo da tempo.
Mi spillò tredici euro suonati
dopo avermi rifilato una tessera personale e “non cedibile”, giustificandola
orgogliosamente con un “La prossima volta paghi dodici”.
Attesi Bat liberarsi dalle sue
grinfie prima di venir timbrati , bollati e spediti all’interno.
Sembrava di essere sbarcati su un
pianeta sconosciuto, a milioni di miliardi di anni luce di distanza dal nostro.
Ogni essere che mi passava di fianco era un incontro ravvicinato del decimo
tipo
“Andiamo a bere qualcosa.” mi disse
Bat tirandomi per un braccio.
Mentre ci dirigevamo verso il
bancone del bar, mi sentii come una pennellata rosa shocking sul volto della
Gioconda. Bat, invece, sembrava trovarsi perfettamente a suo agio tra quelle
figure lievemente eccentriche e procedeva davanti a me a passo sicuri, come se
avesse percorso quella strada un migliaio di volte.
“Cosa si beve in un locale come
questo?”, pensai mentre mi avvicinavo al bancone del bar.
“Birra? Troppo banale. Cocktail?
Non ne conosco nemmeno uno e non c’è nessuna lista ad aiutarmi. Whisky? Certo…
e mi ritroverò disteso sulle mattonelle del bagno fra dieci minuti. Analcolici?
Lascia stare, Primo…“
Ero realmente in preda al panico
non sapendo con che cosa inaugurare la mia serata alcolica. Bat ordinò un Cuba
Libre senza pensare e decisi di fidarmi di lui.
Ci sedemmo su un divanetto
all’altro lato del locale a osservare la gente che, man mano, cominciava a
riempire i numerosi spazi vuoti.
La pista era ancora desolatamente
deserta ma il DJ, dietro alla sua console, sembrava non prendere minimamente in
considerazione quella situazione.
“Cosa ti dicevo a proposito della
carne fresca?”, mi urlò Bat in un orecchio.
Gli sorrisi appena.
Dovetti riconoscere che, da
questo punto di vista, ci aveva realmente azzeccato. Ogni ragazza che mi
passava davanti era pervasa da una sensualità spaventosa. Fortunatamente
qualcuna di loro, non proprio attraente, riportava i miei pensieri sulla Terra.
Verso la metà del mio cocktail,
la vena spiccatamente critica che mi contraddistingue cominciò ad indebolirsi.
Non so per quale strano motivo ma cominciai ad ammettere che, in fondo, quel
locale mi piaceva parecchio.
L’arredamento era accuratamente
soft: un bancone del bar grande abbastanza da non creare file chilometriche,
divanetti comodi, spesso isolati e in numero sufficiente a non scatenare risse
per accaparrarsene uno e, dulcis in fundo, esisteva persino una sala fumatori,
il ché stava a significare che non avrei dovuto rischiare una polmonite per
fumarmi una sigaretta.
E poi la gente: l’aggettivo che
più mi sembrava adatto a descriverli era “appariscente”, ma non
quell’appariscenza delle feste di carnevale, tutt’altro. Certamente alcuni
esemplari sembravano appena usciti dal carnevale di Rio de Janeiro, se non
fosse che di colori non se ne vedeva nemmeno l’ombra.
Ero realmente affascinato da
loro, dalla loro capacità di scovare il minimo particolare per mettersi in luce
e questo era curioso, considerando il fatto che mi davano l’impressione di
essere più a loro agio nell’ombra.
Cominciai a immaginare che razza
di vite fossero le loro, come si chiamassero, cosa facessero per sopravvivere,
quale fosse la loro attività preferita nel tempo libero.
Un ragazzo alto e magro, con la
cresta viola, divenne Alfonso, tecnico informatico depresso in qualche ufficio
del centro, in cerca di svaghi estremi prima di rituffarsi nella sua lunga settimana
di monotonia.
La bionda tutta collant, braccia
comprese, fu Cristina; nome virtuale su qualche sito gothic: Krystel. Appena
uscita anagraficamente, ma non del tutto mentalmente, dall’adolescenza, amava
ritrovarsi con la sua “setta” ogni sabato sera su una pista da ballo come
questa, per poi raccontare poeticamente il tutto ai suoi amici virtuali.
Quell’uomo in camicia nera e
cravatta viola, appena uscito da un pomeriggio di sofferenze agli studi L’Oreal
de Paris, prese il nome di Gianluca, emergente rock star di qualche gruppo
elektro-wave, impegnato invano nel riportare in auge sonorità visionarie, caratteristiche
della fine anni settanta.
E poi c’era lei, la Dea, una di quelle poche
persone al mondo che sembrano non aver bisogno di alcunché per sopravvivere, se
non delle attenzioni di chi sta loro intorno. Assegnarle un nome mi parve un
azzardo, immaginarle addosso una vita era pressoché inutile.
Starla ad osservare giustificava
i dodici euro spesi per entrare; avrei potuto passare ore ad ammirarla senza
mai stancarmi di lei. I suoi movimenti, le sue espressioni… Mi sembrava
addirittura di poter sentire il suo profumo.
Se mi fossi osservato dall’esterno,
avrei certamente visto un ragazzino sudato, con gli occhiali appannati, gli occhi
sbarrati e la bocca aperta. Probabilmente avevo realmente assunto quella posa,
dato che Bat si premurò di riacciuffarmi per i capelli da quel bellissimo
sogno, rifilandomi un pugno sulla spalla, che mi fece sobbalzare.
“Sembra che tu abbia visto la
Madonna!”, disse.
“Beh, poco ci manca…”, sussurrai.
Scoppiò a ridere e la cosa mi
infastidì parecchio; non poteva permettersi di contaminare così le mie
fantasie.
“Vai a conoscerla, no?”
“Ma sei fuori di testa?”,
risposi.
“Ma che ti frega, tanto non la
incontrerai mai più!”
“Lo so, ma figurati se si mette a
parlare con uno come me.”
“Perché no?”
A volte non capivo se Bat era ottimista
o semplicemente stupido.
“Ma mi vedi? E la vedi lei? Non
c’entriamo niente l’uno con l’altra! Anzi, sono convinto che appena le dirò
qualcosa mi riderà in faccia e andrà a raccontare tutto ai suoi amici fighi.”
“Ok, allora ci vado io!”, disse
alzandosi.
Lo trapassai con lo sguardo
mentre lo afferravo bruscamente per la camicia di seta.
“Se lo fai ti rompo le ossa!”
I miei trascorsi da finto duro tornavano
a galla.
“E allora vai, idiotone!”
Sì, andare, è facile a dirsi… E’
molto più complicato, invece, quando si devono comandare le proprie gambe nella
direzione giusta. Inoltre, cosa avrei mai potuto dirle? Di cosa parla una
ragazza così? Come si guarda una ragazza così? Sicuramente non come la guardavo
fino a poco fa.
“Invitala a ballare.”
Ebbi la sensazione che Bat avesse
udito i miei pensieri.
La pista si era inaspettatamente
riempita – chissà per quanto tempo ero rimasto in catalessi a guardarla – e
capii che l’idea del mio amico non era affatto male. Una frase secca e decisa,
sufficiente a farle capire che il “sapere di lei” al momento non era importante,
che ci sarebbe stato tempo a sufficienza per questo, durante la serata.
E poi, ballando, avrei
sicuramente allentato la tensione, la mia tensione, e avrei avuto il tempo di pensare
ad un argomento interessante. Impegnandomi a fondo, avrei potuto addirittura
programmare l’intera conversazione.
“Ok, ci vado!”
Ero realmente convinto di farlo,
era il mio micromillesimo e, questa volta, non avevo la minima intenzione di
stare fermo a prendermi un calcio in culo.
Mi alzai deciso, finsi di
guardarmi intorno per temporeggiare e mi diressi verso la mia Dea.
Le passai di fianco ma non la
guardai, non volevo che capisse che stavo andando da lei.
Mi fermai al bancone del bar e
ordinai un altro Cuba.
“Mi darà la carica”, pensai.
Bat intanto mi osservava da lontano
e mi lanciava gesti inequivocabili, che sarebbe meglio non descrivere.
Decisi di prenderla alla larga:
attraversai la pista, mi fermai ancora ad osservare la gente che ballava,
raggiunsi il bagno, ci stetti dieci secondi contati e tornai indietro, trovandomi
esattamente di fronte a lei, seppur ad una ventina di metri di distanza.
“Alla prossima canzone vado!”, mi
imposi.
Ero appeso ad un pilastro, con un
orecchio verso gli amplificatori e un occhio fisso sulla Dea. Ero concentrato
come alla partenza del Gran Premio di Monza; pigiavo sull’acceleratore per non
far spegnere il motore e contemporaneamente sul freno per non incorrere in una
falsa partenza.
Non avevo mai odiato i Death In June come in quel momento:
quando diavolo avevano scritto una canzone così lunga?
D’altra parte, ero conscio che nell’istante
in cui il pezzo fosse terminato tutte le mie certezze sarebbero crollate, come
un castello di carte nel mezzo di una tormenta di sabbia.
E così fu: la canzone finì prima
di quanto mi aspettassi e il diavoletto sulla mia spalla sinistra cominciò a
punzecchiarmi col suo forcone: era giunto il momento di procedere.
Mi staccai dal pilastro come se
fossi agganciato ad una superficie interamente ricoperta di velcro e presi a
camminare incerto nel mezzo della pista.
Tredici metri… Dieci metri…
“Bene, non si è ancora accorta di
me.”
Sei metri… Quattro metri…
“Cazzo, mi sta guardando! Ci
siamo Primo, sfoggia il tuo sorriso abbagliante!”
Ai tre metri successe quello che
temevo: l’Apocalisse.
Una montagna umana, dai capelli
cotonati, mi urtò inavvertitamente e l’intero contenuto del mio bicchiere mi si
versò addosso, concentrandosi, quasi totalmente, nel punto in cui non avrebbe mai
dovuto concentrarsi: il cavallo dei pantaloni.
Tutto questo davanti a lei!
Non volevo guardarla, mi sarei
persino strappato i timpani dalle orecchie pur di non sentire le sue risate e
quelle dei suoi amici.
La montagna cotonata non si
accorse nemmeno del danno che aveva causato… Maledetto pirata delle piste da
ballo!
“E ora, che faccio?”, pensai in
una frazione di secondo di panico assoluto.
Alzai istintivamente lo sguardo
verso di lei e mi sorpresi quando vidi che non stava affatto ridendo; mi
guardava e non rideva di me! Ok, forse un sorriso c’era, ma come biasimarla?
Era una donna sensibile e piena
di tatto, ne avevo le prove.
Tutto questo mi parve, però, un’inezia
in confronto a quello che avvenne subito dopo: cominciò a frugare nella sua
borsa borchiata e tirò fuori un pacchetto di fazzoletti, ne estrasse uno e me
lo porse.
“Grazie!”, dissi mentre la mia
mano tremante si avvicinava alla sua.
Mi rispose con un sorriso, il più
bello e sincero che avessi mai visto.
Mi ripulii freneticamente,
regalando frequenti occhiate d’odio all’assassino che continuava imperterrito a
ballare dietro di me.
Riuscii a rimediare in qualche
modo a parte di quel disastro ma una grossa chiazza scura rimase a ricordarmi
quanto sono sfigato nella vita.
“Sai, di solito i cocktail li
bevo dal bicchiere, non dai vestiti.”, le dissi.
“Lo spero.”, rispose, di nuovo
con quel magnifico sorriso.
Ma, un momento… mi aveva appena
parlato! Non potevo credere alle mie orecchie. Lo aveva fatto veramente o me lo
ero solo immaginato? Ero nel marasma più totale.
Immaginate la scena: un uomo in
umido, affranto e in preda al caos, in piedi, a pochi passi dalla sconosciuta
donna della sua vita, con un fazzoletto di carta sbrindellato nella mano
destra, appena uscito da una figura di merda colossale. Cosa potrà mai dire in
situazione simile?
“Posso sedermi? Tutta questa cosa
mi ha sfiancato…”
Sfiancato? E per quale cavolo di
motivo dovrei essere sfiancato? Oh Dio, l’ho detto veramente? Oh Dio, uccidimi
all’istante! Un ictus, un infarto, qualcosa il più possibile fulmineo per non
soffrire e andarmene da eroe.
Si scansò, liberando un posto
vicino a lei.
Mi sedetti goffamente, con
quell’accidenti di residuo di fazzoletto, del quale non sapevo che farmene.
“Bene, sono qui… E adesso?”,
pensai.
Non avevo il coraggio di
guardarla in faccia e mi limitai a spiarla con la coda dell’occhio.
Non parlava e fissava la pista da
ballo con uno sguardo vuoto. Non sorrideva, non cercava nessuno, a tratti mi
sembrò persino che non respirasse.
“Comunque… Primo.” Dissi senza
pensare.
“Cosa?”
“Primo. Mi chiamo Primo.”
“Piacere, Shara.”
Mi strinse delicatamente la mano.
“Piacere di conoscerti, Sara.”
“Non Sara, Shara… con l’acca.”
Rimasi pensoso per un secondo.
“Ah scusa, Shara. Bel nome!”
“Dici?”
“Sì… Per lo meno è particolare.”
“Sì. Anche il tuo non scherza in
quanto a particolarità.”
“Sarebbe stato più bello se fosse
stato Primoh.”, dissi aspirando la 'o'.
Mi sorrise nuovamente e mi sentii
al settimo cielo. Avrei speso l’intera serata, e quelle seguenti, solo per
farla sorridere ancora.
“Di dove sei?”, le chiesi.
“Milano. Tu no?”
“Sì, certo, Milano anch’io. Siamo
a Milano… è normale essere di Milano, a Milano.”
Mi guardò un po’ stranita e mi
resi conto che mi stavo scavando la fossa con le mie mani.
Decisi di tacere per un po’ per
non peggiorare la situazione ma quel un
po' durò cinque minuti.
Sapevo che star lì senza proferir
parola non era certo un ottimo modo per colpirla, ma non riuscivo a pensare a
nessun argomento intelligente per uscire dall’empasse.
Improvvisamente mi ricordai del
consiglio di Bat e mi sentii rinfrancato e pieno di entusiasmo.
“Ti va di ballare?”, chiesi
timidamente.
Mi guardò, guardò la pista e
tornò su di me. L’attesa della sua risposta mi sfiniva.
“Ok.” rispose finalmente.
Mi alzai di scatto, forse un po’
troppo, e mi sentii come un bambino che attende i genitori per andare sulla giostra
preferita al luna park.
Quando entrammo in pista, i Cure furono il nostro sottofondo. Lovesong era ineluttabilmente un segno
del destino e decisi che avrei per sempre ricordato quella come “la nostra
canzone”.
Ballavo a non meno di un metro da
lei, temendo di invadere il suo spazio fisico e mentale. La osservavo estasiato
mentre, a occhi chiusi, i suoi fianchi ondeggiavano e le mani volteggiavano
nell’aria a ritmo di musica. I lunghi capelli scuri seguivano i movimenti del
suo corpo come in una coreografia studiata minuziosamente.
Non c’era niente che non andasse
in lei, era semplicemente perfetta. Sembrava che Robert Smith adeguasse il suo
canto ai movimenti della mia Dea; ero sicuro che stesse cantando per lei.
Dal mio canto, non sono mai stato
un grande ballerino e non lo fui certamente in quell'occasione. Pochi passi
sempre uguali, imparati in adolescenza su ben altre musiche, erano il mio unico
bagaglio artistico.
Ero felice come non mai; sapevo
che sarebbe durato tutto lo spazio di dieci minuti, poi si sarebbe stancata, mi
avrebbe ringraziato del ballo e “tanti saluti”. Tuttavia, non m'importava
dell’immediato futuro, ero troppo coinvolto dal presente.
Avevo finalmente preso
un’iniziativa importante e per la prima volta nella mia vita non mi sarei
pentito di una mia decisione. Avevo fatto quel che volevo fare ed era l’unica
cosa che contava.
Continuavo a guardarla e non
esisteva niente intorno a me. Niente più montagne cotonate, niente più amici SbagliaSerate, niente più ex-mogli a togliermi
l’appetito.
Solo lei, io e la musica.
La canzone finì e Shara riaprì
gli occhi come per risvegliarsi da un sogno.
Sembrò disorientata.
Le chiesi se andava tutto bene ma
non mi rispose e si diresse velocemente verso il bagno.
Seguirla o lasciarla andare?
Tutto ricomparve in un baleno: la
pista, la gente, le voci e, in fondo, appollaiato sul suo divanetto in
compagnia di una ragazza, il mio amico Bat.
Impalato nel mezzo della pista,
continuavo a martoriare i miei pensieri.
Cercai di ritrovare Shara con lo
sguardo ma mi resi conto di averla persa.
Per un istante credetti che fosse
il caso di raggiungerla e sincerarmi che stesse bene ma cambiai opinione
praticamente subito: non volevo che pensasse che volevo starle appiccicata, non
subito per lo meno.
Andai a sedermi, continuando a
guardarmi intorno, nella vana speranza di scorgerla.
Rimasi inerme e sconsolato per
l’intera serata e non la vidi più.
Quando la gente cominciò a
sfollare, Bat mi raggiunse con quel suo sorriso odioso da conquista.
“Allora, vecchio mandrillo, come
è andata?”
Urlò talmente forte che la gente
intorno a noi cominciò a fissarci come due lebbrosi.
“Dov’è la tua Dea?” insistette.
“Non lo so.”
“Come non lo sai?”, chiese
sbalordito. “Becchi una così e te la fai scappare?”
“L’ho persa di vista.”
“Va beh… ma almeno vi rivedrete,
no?”
“Non credo. So appena come si
chiama.”
“Mi stai dicendo che non le hai
nemmeno chiesto il numero di telefono?”
“No! Non ne ho avuto il tempo…”
“Oh Signore benedetto! Stasera ti
lascio in pace perché sono sfinito ma da domani corso intensivo su come
corteggiare una ragazza!”
Cominciavo ad odiarlo con tutto
il cuore! Come potevano le ragazze essere attratte da uno come lui?
Mi trascinò per un braccio fino
all’interno di Peggy Blue e nello spazio di cinque minuti fummo a centodieci
chilometri orari, sulla buia strada provinciale.
Nel frattempo, aveva cominciato a
piovere e tutto lo schifo della città riaffiorò dal sottosuolo. Questo è
l’unico posto al mondo dove la pioggia sporca il paesaggio invece di ripulirlo.
“Forse lo sporco sulle strade è
lo stesso che ha dentro di sé chi per le strade ci cammina. Forse lo sporco
viene proprio da noi o, peggio, siamo proprio noi.” pensai.
La musica a tutto volume, dallo
stereo di Bat, copriva ogni rumore.
Pensai che, almeno per un’altra
misera volta, mi sarebbe piaciuto sentire le gocce di pioggia infrangersi sul
finestrino.
tratto da Micromillesimi (2008)
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