lunedì 18 marzo 2013

Estratto #1

La serata stava scorrendo sonnecchiante.
Nemmeno la mia preziosa videoteca era riuscita a strapparmi alla monotonia; pur regalandomi due ore in piacevole compagnia di Jules e Vincent, alla fine mi ritrovai a sbuffare a pancia in su.
Decisi che era giunto il momento di scrivere la parola “Fine” nei titoli di coda di una giornata snervante e me ne andai a dormire.
Passai quasi un’ora a fissare il soffitto sporco attendendo l’arrivo di Morfeo e, proprio quando stavo per abbracciarlo, il trillo lacerante del telefono mi fece sussultare.
Mi ero preoccupato di rendere innocuo il cellulare ma non avevo minimamente calcolato il telefono fisso.
“Pronto…”
“Ciao relitto!”
Ecco il mio simpatico amico Bat, diminutivo di Battista, trentenne ultradinamico conosciuto in un villaggio turistico a Sharm el-Sheikh l’anno precedente, quando ero convinto che il mio stato di neo-single-in-cerca-di-una-nuova-vita mi avrebbe favorito nell’aspra lotta intestina del genere maschile alla ricerca di donne libertine.
“Ciao Bat.”
“Come stai uomo-muffa?”
“Bene. Sono disoccupato…”
“Cazzo! Non sai come ti invidio!” non era ironico, mi invidiava davvero. “E come è successo?”
“Come vuoi che sia successo? E’ successo e basta.”
“Giusto.”
“A cosa devo questa tua quanto mai opportuna telefonata alle…” guardai l’orologio: ventitrè e trenta! Questo voleva dire che ero andato a dormire alle dieci e trenta di sera! Mi resi conto che avevo bisogno di una svolta.
“Non mi dirai che ti ho svegliato? A quest’ora?”
“Non stavo dormendo.”
“Allora stavi…? Ma figurati, non ci credo neanche se lo vedo!”
“Tranquillo, non succederà mai.”
“Che cosa?”
“Non mi farò mai vedere da te mentre… Al massimo ti faccio una cassetta e te la spedisco.”
“No grazie. Lo sai che non mi piacciono gli horror.”
“Vecchia battuta! Piuttosto, cosa mi dovevi dire?”
“Ah sì… Vestiti che sto passando a prenderti.”
“Per andare dove?”
“Mi hanno parlato di un locale troppo cool…” tremai nel sentirgli pronunciare questa parola.
Ogni volta che lo aveva fatto, in passato, mi ero sempre ritrovato a giocherellare con un bicchiere di plastica in preda ad una noia massacrante.
“Però muoviti che è dall’altra parte della città e ci si mette un po’ ad arrivare.”
“Ok, mi infilo una felpa e scendo.”
“Una felpa? Di che colore?”
“Cazzo vuol dire ‘di che colore’?”
“Dimmelo, è importante!”
Mi guardai intorno alla ricerca di una felpa.
“Rossa.”
“No, lascia stare, meno colori avrai addosso e meglio sarà…”
“Io in macchina con te non ci vengo!”
“Perché?”
“Perché sei già ubriaco!”
“No, fidati sono lucido. È che questo è un locale dark, quindi capisci benissimo da solo che vestirsi da Arlecchino non è la cosa migliore.”
“Vedrò cosa posso fare…”
“Bravo!” riagganciò senza salutare.
Rovistai nel mio armadio alla ricerca di tutto ciò che poteva essere più scuro possibile. Non ero mai stato un dark e tentare di diventarlo a ventinove anni era tutt’altro che semplice.
Riuscii a scovare un paio di jeans neri e una felpa grigio scuro, il massimo della tristezza cromatica che mi potessi permettere.
Dopo cinque minuti precisi, Bat arrivò a casa mia. Non ebbe bisogno di citofonare, lo riconobbi dalla lunga e fragorosa sgommata che lasciò sull’asfalto. Era la sua firma.
Quando mi richiusi alle spalle il pesante portone di ingresso del mio palazzo, lo vidi a bordo della sua Peggy Blue, immerso in quell’abitacolo iper carico di decibel e luci colorate. Grazie a Bat, e al suo allestimento elettronico, avevo ricominciato a soffrire il mal d’auto dopo vent’anni.
Salii in macchina e mi sottopose ad un check up dettagliato: trenta interminabili secondi di sguardi impudenti dalla testa ai piedi. A un certo punto ebbi il timore che avrebbe squadrato persino la mia biancheria intima.
Il suo silenzio al termine dell’esame fu il segnale che, in fondo, ero riuscito a non deludere le sue aspettative.
Il suo SintolettoreCdRWMp3RadioRDS sputava note non troppo definite da non so quanti altoparlanti, disseminati negli angoli più reconditi della vettura.
“Come si chiama questo posto?” chiesi in cerca di qualche rassicurante informazione.
“Shelter.”
“Come?” il volume della musica mi provocava leggerissime difficoltà ricettive.
“SHELTER!” gridò.
“E dove si trova?”
“Di là.”, disse indicando verso Sud.
Ora ero veramente tranquillo: stavo per passare la serata con il mio amico SbagliaSerate, in un locale del tutto sconosciuto che si trovava a non so quanti chilometri “di là”, con gente che non poteva essere più diversa da noi.
Mi venne da vomitare.
“Ma tu ci sei mai stato prima?”
“No.”
“Bene!”, risposi sconsolatamente ironico.
“Dov’è il problema? Mi hanno detto che è fantastico. Io mi fido dei miei amici.”
“Io no.” sussurrai.
“Cosa?”
“Niente…”
“E poi mi hanno detto che è pieno zeppo di carne fresca!”
Ecco il suo poetico modo di definire il gentil sesso dai 18 ai 25 anni. Mi immaginai Bat dietro al bancone di una macelleria, intento a decantare la qualità delle carni appese ai robusti ganci metallici.
Peggy Blue sfrecciava lungo le strade, sempre più deserte man mano che ci allontanavamo dal centro città.
Non so come facesse, ma Bat aveva l’incredibile capacità di non trovare mai sul suo cammino un semaforo rosso. Sembrava calcolasse la giusta velocità per non dover mai essere costretto a pigiare il pedale del freno. Da quando lo conoscevo, non riuscivo a ricordarlo anche solo una volta fermo ad un semaforo. Se fosse stato un tassista, sarebbe fallito in una settimana.
Arrivammo al locale in poco più di quindici minuti, il che non coincideva affatto con quello che mi aveva detto al telefono: il suo “Ci si mette un po’ ad arrivare…” doveva essere una frase retorica.
Ci ritrovammo in aperta campagna, sul ciglio di una lunga strada provinciale, dove la parola “lampione” pareva un termine della neolingua Orwelliana.
Il parcheggio era uno spiazzo sterrato e fangoso davanti a un ristorante-balera, dal quale fuoriusciva musica stagionata a basso contenuto erotico. Del nostro locale, però, non c’era traccia.
“Ma sei sicuro che sia qui?”
“Ho mai sbagliato una volta?”, chiese quasi stizzito.
“Beh, più di una, direi…”
“Ok, potrò aver sbagliato sul tipo di serata ma non sulla destinazione!”
“Forse qualche volta sarebbe stato meglio se avessi invertito le cose.”
“Comunque è qui, fidati.”
Parcheggiò Peggy Blue in terza fila, proprio di fianco a qualcosa che ricordava molto l’auto cibernetica di Automan.
Percorremmo lo spiazzo di fango a passi vistosamente irregolari, nel tentativo di non cadere in qualche sabbia mobile, disseminata nell’oscurità.
Ci ritrovammo davanti all’ingresso del ristorante-balera senza la minima idea di dove andare. All’interno, un paio di coppie rugose rasentavano l’infarto, scatenandosi in una tango che nulla aveva di sensuale. Il resto era desolazione pura.
“Caro mio, ho paura che questa volta ti sei perso.”, dissi.
“Innanzitutto non mi sono perso e poi, anche quando fosse così, ci siamo persi entrambi.”
“Entrambi? Tu sapevi dov’era sto locale e tu guidavi. Quindi tu ti sei perso.”
“Ma no, abbi fede.”
“E in base a quale strano principio dovrei avere fede?”
“Guarda la.” indicò il parcheggio. “Quante macchine vedi?”
“Un centinaio, forse…”
“E ora guarda la.” indicò l’interno del ristorante-balera. “Quante persone vedi?”
Sorprendente, aveva ragione! Il numero delle cariatidi non giustificava affatto tutte quelle auto parcheggiate. Inoltre, intorno a noi c’era solo campagna, nessun altro bar, ristorante, centro commerciale, niente di niente.
“E per finire: guarda la.”
Indicò orgoglioso una coppia di figure, nero vestite, dirigersi verso un cancello laterale, che non avevo assolutamente notato.
“Dovrei cominciare a fare qualche scommessa con te, arrotonderei il mio stipendio.”, disse trionfante.
Seguimmo la coppia oscura oltre il cancello e poi giù per una corta rampa cementata e, in pochi secondi, fummo davanti all’ingresso dello Shelter.
Entrando, venimmo subito sommersi da una quanto mai frenetica versione di Poison Pen a tutto volume e ci accodammo agli altri avventori alla cassa.
“Ancora non sono entrato e già devo pagare…” pensai sconsolato, ma poi mi ricordai che il mondo funziona così.
Mentre attendevamo il nostro turno, cominciai a guardarmi attorno nel tentativo di capire in che razza di posto fossi capitato e scorsi un cartello, appeso proprio di fianco a due buttafuori, che timbravano mani come un dipendente delle Poste timbra pacchi. Il cartello recitava: “Si prega la clientela di presentarsi esclusivamente in abbigliamento dark. La Direzione.”
Cominciai a pormi domande altamente esistenziali sul significato delle parole che avevo appena letto:

  1. Che cosa intende La Direzione per “abbigliamento dark”?
  2. Cosa rende un capo di abbigliamento “dark”? Forse il nero?
  3. Cosa vuol dire essere “dark”?
  4. Esiste una Direzione, in questo posto?
  5. Ci voleva una Direzione per scrivere quel cartello?

Dopo minuti interminabili mi ritrovai di fronte ad una donna di mezza età, classica madre di famiglia bisognosa di stipendio extra e vistosamente agghindata per l’occasione, che mi sorrise e mi salutò cordialmente, come se ci conoscessimo da tempo.
Mi spillò tredici euro suonati dopo avermi rifilato una tessera personale e “non cedibile”, giustificandola orgogliosamente con un “La prossima volta paghi dodici”.
Attesi Bat liberarsi dalle sue grinfie prima di venir timbrati , bollati e spediti all’interno.
Sembrava di essere sbarcati su un pianeta sconosciuto, a milioni di miliardi di anni luce di distanza dal nostro. Ogni essere che mi passava di fianco era un incontro ravvicinato del decimo tipo
“Andiamo a bere qualcosa.” mi disse Bat tirandomi per un braccio.
Mentre ci dirigevamo verso il bancone del bar, mi sentii come una pennellata rosa shocking sul volto della Gioconda. Bat, invece, sembrava trovarsi perfettamente a suo agio tra quelle figure lievemente eccentriche e procedeva davanti a me a passo sicuri, come se avesse percorso quella strada un migliaio di volte.
“Cosa si beve in un locale come questo?”, pensai mentre mi avvicinavo al bancone del bar.
“Birra? Troppo banale. Cocktail? Non ne conosco nemmeno uno e non c’è nessuna lista ad aiutarmi. Whisky? Certo… e mi ritroverò disteso sulle mattonelle del bagno fra dieci minuti. Analcolici? Lascia stare, Primo…“
Ero realmente in preda al panico non sapendo con che cosa inaugurare la mia serata alcolica. Bat ordinò un Cuba Libre senza pensare e decisi di fidarmi di lui.
Ci sedemmo su un divanetto all’altro lato del locale a osservare la gente che, man mano, cominciava a riempire i numerosi spazi vuoti.
La pista era ancora desolatamente deserta ma il DJ, dietro alla sua console, sembrava non prendere minimamente in considerazione quella situazione.
“Cosa ti dicevo a proposito della carne fresca?”, mi urlò Bat in un orecchio.
Gli sorrisi appena.
Dovetti riconoscere che, da questo punto di vista, ci aveva realmente azzeccato. Ogni ragazza che mi passava davanti era pervasa da una sensualità spaventosa. Fortunatamente qualcuna di loro, non proprio attraente, riportava i miei pensieri sulla Terra.
Verso la metà del mio cocktail, la vena spiccatamente critica che mi contraddistingue cominciò ad indebolirsi. Non so per quale strano motivo ma cominciai ad ammettere che, in fondo, quel locale mi piaceva parecchio.
L’arredamento era accuratamente soft: un bancone del bar grande abbastanza da non creare file chilometriche, divanetti comodi, spesso isolati e in numero sufficiente a non scatenare risse per accaparrarsene uno e, dulcis in fundo, esisteva persino una sala fumatori, il ché stava a significare che non avrei dovuto rischiare una polmonite per fumarmi una sigaretta.
E poi la gente: l’aggettivo che più mi sembrava adatto a descriverli era “appariscente”, ma non quell’appariscenza delle feste di carnevale, tutt’altro. Certamente alcuni esemplari sembravano appena usciti dal carnevale di Rio de Janeiro, se non fosse che di colori non se ne vedeva nemmeno l’ombra.
Ero realmente affascinato da loro, dalla loro capacità di scovare il minimo particolare per mettersi in luce e questo era curioso, considerando il fatto che mi davano l’impressione di essere più a loro agio nell’ombra.
Cominciai a immaginare che razza di vite fossero le loro, come si chiamassero, cosa facessero per sopravvivere, quale fosse la loro attività preferita nel tempo libero.
Un ragazzo alto e magro, con la cresta viola, divenne Alfonso, tecnico informatico depresso in qualche ufficio del centro, in cerca di svaghi estremi prima di rituffarsi nella sua lunga settimana di monotonia.
La bionda tutta collant, braccia comprese, fu Cristina; nome virtuale su qualche sito gothic: Krystel. Appena uscita anagraficamente, ma non del tutto mentalmente, dall’adolescenza, amava ritrovarsi con la sua “setta” ogni sabato sera su una pista da ballo come questa, per poi raccontare poeticamente il tutto ai suoi amici virtuali.
Quell’uomo in camicia nera e cravatta viola, appena uscito da un pomeriggio di sofferenze agli studi L’Oreal de Paris, prese il nome di Gianluca, emergente rock star di qualche gruppo elektro-wave, impegnato invano nel riportare in auge sonorità visionarie, caratteristiche della fine anni settanta.
E poi c’era lei, la Dea, una di quelle poche persone al mondo che sembrano non aver bisogno di alcunché per sopravvivere, se non delle attenzioni di chi sta loro intorno. Assegnarle un nome mi parve un azzardo, immaginarle addosso una vita era pressoché inutile.
Starla ad osservare giustificava i dodici euro spesi per entrare; avrei potuto passare ore ad ammirarla senza mai stancarmi di lei. I suoi movimenti, le sue espressioni… Mi sembrava addirittura di poter sentire il suo profumo.
Se mi fossi osservato dall’esterno, avrei certamente visto un ragazzino sudato, con gli occhiali appannati, gli occhi sbarrati e la bocca aperta. Probabilmente avevo realmente assunto quella posa, dato che Bat si premurò di riacciuffarmi per i capelli da quel bellissimo sogno, rifilandomi un pugno sulla spalla, che mi fece sobbalzare.
“Sembra che tu abbia visto la Madonna!”, disse.
“Beh, poco ci manca…”, sussurrai.
Scoppiò a ridere e la cosa mi infastidì parecchio; non poteva permettersi di contaminare così le mie fantasie.
“Vai a conoscerla, no?”
“Ma sei fuori di testa?”, risposi.
“Ma che ti frega, tanto non la incontrerai mai più!”
“Lo so, ma figurati se si mette a parlare con uno come me.”
“Perché no?”
A volte non capivo se Bat era ottimista o semplicemente stupido.
“Ma mi vedi? E la vedi lei? Non c’entriamo niente l’uno con l’altra! Anzi, sono convinto che appena le dirò qualcosa mi riderà in faccia e andrà a raccontare tutto ai suoi amici fighi.”
“Ok, allora ci vado io!”, disse alzandosi.
Lo trapassai con lo sguardo mentre lo afferravo bruscamente per la camicia di seta.
“Se lo fai ti rompo le ossa!”
I miei trascorsi da finto duro tornavano a galla.
“E allora vai, idiotone!”
Sì, andare, è facile a dirsi… E’ molto più complicato, invece, quando si devono comandare le proprie gambe nella direzione giusta. Inoltre, cosa avrei mai potuto dirle? Di cosa parla una ragazza così? Come si guarda una ragazza così? Sicuramente non come la guardavo fino a poco fa.
“Invitala a ballare.”
Ebbi la sensazione che Bat avesse udito i miei pensieri.
La pista si era inaspettatamente riempita – chissà per quanto tempo ero rimasto in catalessi a guardarla – e capii che l’idea del mio amico non era affatto male. Una frase secca e decisa, sufficiente a farle capire che il “sapere di lei” al momento non era importante, che ci sarebbe stato tempo a sufficienza per questo, durante la serata.
E poi, ballando, avrei sicuramente allentato la tensione, la mia tensione, e avrei avuto il tempo di pensare ad un argomento interessante. Impegnandomi a fondo, avrei potuto addirittura programmare l’intera conversazione.
“Ok, ci vado!”
Ero realmente convinto di farlo, era il mio micromillesimo e, questa volta, non avevo la minima intenzione di stare fermo a prendermi un calcio in culo.
Mi alzai deciso, finsi di guardarmi intorno per temporeggiare e mi diressi verso la mia Dea.
Le passai di fianco ma non la guardai, non volevo che capisse che stavo andando da lei.
Mi fermai al bancone del bar e ordinai un altro Cuba.
“Mi darà la carica”, pensai.
Bat intanto mi osservava da lontano e mi lanciava gesti inequivocabili, che sarebbe meglio non descrivere.
Decisi di prenderla alla larga: attraversai la pista, mi fermai ancora ad osservare la gente che ballava, raggiunsi il bagno, ci stetti dieci secondi contati e tornai indietro, trovandomi esattamente di fronte a lei, seppur ad una ventina di metri di distanza.
“Alla prossima canzone vado!”, mi imposi.
Ero appeso ad un pilastro, con un orecchio verso gli amplificatori e un occhio fisso sulla Dea. Ero concentrato come alla partenza del Gran Premio di Monza; pigiavo sull’acceleratore per non far spegnere il motore e contemporaneamente sul freno per non incorrere in una falsa partenza.
Non avevo mai odiato i Death In June come in quel momento: quando diavolo avevano scritto una canzone così lunga?
D’altra parte, ero conscio che nell’istante in cui il pezzo fosse terminato tutte le mie certezze sarebbero crollate, come un castello di carte nel mezzo di una tormenta di sabbia.
E così fu: la canzone finì prima di quanto mi aspettassi e il diavoletto sulla mia spalla sinistra cominciò a punzecchiarmi col suo forcone: era giunto il momento di procedere.
Mi staccai dal pilastro come se fossi agganciato ad una superficie interamente ricoperta di velcro e presi a camminare incerto nel mezzo della pista.
Tredici metri… Dieci metri…
“Bene, non si è ancora accorta di me.”
Sei metri… Quattro metri…
“Cazzo, mi sta guardando! Ci siamo Primo, sfoggia il tuo sorriso abbagliante!”
Ai tre metri successe quello che temevo: l’Apocalisse.
Una montagna umana, dai capelli cotonati, mi urtò inavvertitamente e l’intero contenuto del mio bicchiere mi si versò addosso, concentrandosi, quasi totalmente, nel punto in cui non avrebbe mai dovuto concentrarsi: il cavallo dei pantaloni.
Tutto questo davanti a lei!
Non volevo guardarla, mi sarei persino strappato i timpani dalle orecchie pur di non sentire le sue risate e quelle dei suoi amici.
La montagna cotonata non si accorse nemmeno del danno che aveva causato… Maledetto pirata delle piste da ballo!
“E ora, che faccio?”, pensai in una frazione di secondo di panico assoluto.
Alzai istintivamente lo sguardo verso di lei e mi sorpresi quando vidi che non stava affatto ridendo; mi guardava e non rideva di me! Ok, forse un sorriso c’era, ma come biasimarla?
Era una donna sensibile e piena di tatto, ne avevo le prove.
Tutto questo mi parve, però, un’inezia in confronto a quello che avvenne subito dopo: cominciò a frugare nella sua borsa borchiata e tirò fuori un pacchetto di fazzoletti, ne estrasse uno e me lo porse.
“Grazie!”, dissi mentre la mia mano tremante si avvicinava alla sua.
Mi rispose con un sorriso, il più bello e sincero che avessi mai visto.
Mi ripulii freneticamente, regalando frequenti occhiate d’odio all’assassino che continuava imperterrito a ballare dietro di me.
Riuscii a rimediare in qualche modo a parte di quel disastro ma una grossa chiazza scura rimase a ricordarmi quanto sono sfigato nella vita.
“Sai, di solito i cocktail li bevo dal bicchiere, non dai vestiti.”, le dissi.
“Lo spero.”, rispose, di nuovo con quel magnifico sorriso.
Ma, un momento… mi aveva appena parlato! Non potevo credere alle mie orecchie. Lo aveva fatto veramente o me lo ero solo immaginato? Ero nel marasma più totale.
Immaginate la scena: un uomo in umido, affranto e in preda al caos, in piedi, a pochi passi dalla sconosciuta donna della sua vita, con un fazzoletto di carta sbrindellato nella mano destra, appena uscito da una figura di merda colossale. Cosa potrà mai dire in situazione simile?
“Posso sedermi? Tutta questa cosa mi ha sfiancato…”
Sfiancato? E per quale cavolo di motivo dovrei essere sfiancato? Oh Dio, l’ho detto veramente? Oh Dio, uccidimi all’istante! Un ictus, un infarto, qualcosa il più possibile fulmineo per non soffrire e andarmene da eroe.
Si scansò, liberando un posto vicino a lei.
Mi sedetti goffamente, con quell’accidenti di residuo di fazzoletto, del quale non sapevo che farmene.
“Bene, sono qui… E adesso?”, pensai.
Non avevo il coraggio di guardarla in faccia e mi limitai a spiarla con la coda dell’occhio.
Non parlava e fissava la pista da ballo con uno sguardo vuoto. Non sorrideva, non cercava nessuno, a tratti mi sembrò persino che non respirasse.
“Comunque… Primo.” Dissi senza pensare.
“Cosa?”
“Primo. Mi chiamo Primo.”
“Piacere, Shara.”
Mi strinse delicatamente la mano.
“Piacere di conoscerti, Sara.”
“Non Sara, Shara… con l’acca.”
Rimasi pensoso per un secondo.
“Ah scusa, Shara. Bel nome!”
“Dici?”
“Sì… Per lo meno è particolare.”
“Sì. Anche il tuo non scherza in quanto a particolarità.”
“Sarebbe stato più bello se fosse stato Primoh.”, dissi aspirando la 'o'.
Mi sorrise nuovamente e mi sentii al settimo cielo. Avrei speso l’intera serata, e quelle seguenti, solo per farla sorridere ancora.
“Di dove sei?”, le chiesi.
“Milano. Tu no?”
“Sì, certo, Milano anch’io. Siamo a Milano… è normale essere di Milano, a Milano.”
Mi guardò un po’ stranita e mi resi conto che mi stavo scavando la fossa con le mie mani.
Decisi di tacere per un po’ per non peggiorare la situazione ma quel un po' durò cinque minuti.
Sapevo che star lì senza proferir parola non era certo un ottimo modo per colpirla, ma non riuscivo a pensare a nessun argomento intelligente per uscire dall’empasse.
Improvvisamente mi ricordai del consiglio di Bat e mi sentii rinfrancato e pieno di entusiasmo.
“Ti va di ballare?”, chiesi timidamente.
Mi guardò, guardò la pista e tornò su di me. L’attesa della sua risposta mi sfiniva.
“Ok.” rispose finalmente.
Mi alzai di scatto, forse un po’ troppo, e mi sentii come un bambino che attende i genitori per andare sulla giostra preferita al luna park.
Quando entrammo in pista, i Cure furono il nostro sottofondo. Lovesong era ineluttabilmente un segno del destino e decisi che avrei per sempre ricordato quella come “la nostra canzone”.
Ballavo a non meno di un metro da lei, temendo di invadere il suo spazio fisico e mentale. La osservavo estasiato mentre, a occhi chiusi, i suoi fianchi ondeggiavano e le mani volteggiavano nell’aria a ritmo di musica. I lunghi capelli scuri seguivano i movimenti del suo corpo come in una coreografia studiata minuziosamente.
Non c’era niente che non andasse in lei, era semplicemente perfetta. Sembrava che Robert Smith adeguasse il suo canto ai movimenti della mia Dea; ero sicuro che stesse cantando per lei.
Dal mio canto, non sono mai stato un grande ballerino e non lo fui certamente in quell'occasione. Pochi passi sempre uguali, imparati in adolescenza su ben altre musiche, erano il mio unico bagaglio artistico.
Ero felice come non mai; sapevo che sarebbe durato tutto lo spazio di dieci minuti, poi si sarebbe stancata, mi avrebbe ringraziato del ballo e “tanti saluti”. Tuttavia, non m'importava dell’immediato futuro, ero troppo coinvolto dal presente.
Avevo finalmente preso un’iniziativa importante e per la prima volta nella mia vita non mi sarei pentito di una mia decisione. Avevo fatto quel che volevo fare ed era l’unica cosa che contava.
Continuavo a guardarla e non esisteva niente intorno a me. Niente più montagne cotonate, niente più amici SbagliaSerate, niente più ex-mogli a togliermi l’appetito.
Solo lei, io e la musica.
La canzone finì e Shara riaprì gli occhi come per risvegliarsi da un sogno.
Sembrò disorientata.
Le chiesi se andava tutto bene ma non mi rispose e si diresse velocemente verso il bagno.
Seguirla o lasciarla andare?
Tutto ricomparve in un baleno: la pista, la gente, le voci e, in fondo, appollaiato sul suo divanetto in compagnia di una ragazza, il mio amico Bat.
Impalato nel mezzo della pista, continuavo a martoriare i miei pensieri.
Cercai di ritrovare Shara con lo sguardo ma mi resi conto di averla persa.
Per un istante credetti che fosse il caso di raggiungerla e sincerarmi che stesse bene ma cambiai opinione praticamente subito: non volevo che pensasse che volevo starle appiccicata, non subito per lo meno.
Andai a sedermi, continuando a guardarmi intorno, nella vana speranza di scorgerla.
Rimasi inerme e sconsolato per l’intera serata e non la vidi più.
Quando la gente cominciò a sfollare, Bat mi raggiunse con quel suo sorriso odioso da conquista.
“Allora, vecchio mandrillo, come è andata?”
Urlò talmente forte che la gente intorno a noi cominciò a fissarci come due lebbrosi.
“Dov’è la tua Dea?” insistette.
“Non lo so.”
“Come non lo sai?”, chiese sbalordito. “Becchi una così e te la fai scappare?”
“L’ho persa di vista.”
“Va beh… ma almeno vi rivedrete, no?”
“Non credo. So appena come si chiama.”
“Mi stai dicendo che non le hai nemmeno chiesto il numero di telefono?”
“No! Non ne ho avuto il tempo…”
“Oh Signore benedetto! Stasera ti lascio in pace perché sono sfinito ma da domani corso intensivo su come corteggiare una ragazza!”
Cominciavo ad odiarlo con tutto il cuore! Come potevano le ragazze essere attratte da uno come lui?
Mi trascinò per un braccio fino all’interno di Peggy Blue e nello spazio di cinque minuti fummo a centodieci chilometri orari, sulla buia strada provinciale.
Nel frattempo, aveva cominciato a piovere e tutto lo schifo della città riaffiorò dal sottosuolo. Questo è l’unico posto al mondo dove la pioggia sporca il paesaggio invece di ripulirlo.
“Forse lo sporco sulle strade è lo stesso che ha dentro di sé chi per le strade ci cammina. Forse lo sporco viene proprio da noi o, peggio, siamo proprio noi.” pensai.
La musica a tutto volume, dallo stereo di Bat, copriva ogni rumore.
Pensai che, almeno per un’altra misera volta, mi sarebbe piaciuto sentire le gocce di pioggia infrangersi sul finestrino.


tratto da Micromillesimi (2008)

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